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Storia e scienza a confronto sul viaggio astrale

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In questa sezione troveremo credenze e scienza a confronto in una profonda analisi effettuata da molti punti di vista:

  • OBE e NDE presso le culture tradizionali (Roberto De Angelis)
      • Intro
      • Fenomeni reali?
      • L’anima / corpo astrale
      • Sombra
      • Bardo Tödöl e NDE
      • Conoscenza
      • Tibet
      • L’anima fuori dal corpo
      • Guide ed entità spirituali
      • Il giudizio e il passaggio
      • Gli sciamani: viaggio dell’anima ed…
      • Conclusioni
      • Bibliografia essenziale
  • La scienza indaga (da Wikipedia)
      • paralisi notturna
      • llusione ipnagogica
      • sonno ipnopompico

Storia e viaggio astrale

Il viaggio astrale è antico quanto il mondo proprio perchè il corpo astrale è cosa intrinseca della composizione dell’elemento umano.

Si trova traccia della sua esistenza in tantissime culture e periodi storici, basti pensare alle decine di nomi con cui è stato definito il corpo astrale. Gli Ebrei lo chiamavano RUACH, gli Egiziani il KA, i Greci EIDOLON, i Romani LARVA, in Tibet era BARDO (da cui il libro Bardo Thodol), in Germania era chiamato JÜDEL o DOPPELGÄNGER, in Norvegia FYLIA, in Inghilterra FETCH e FYE, gli Indù con il loro PRANAMAYAKOSHA o i Buddisti con il RUPA. Si potrebbe continuare ancora passando per la cultura Cinese con il THANKHI e arrivando alle singole tribù di primitivi o ai grandi Sciamani di cui sono note le capacità di bilocazione legate in parte all’uso di alcune sostanze psicotiche.

Quando si parla di viaggio astrale interpretando testi antichi bisogna tenere conto delle diverse culture e dei diversi simbolismi con cui viene descritta l’uscita dal corpo o le visioni da essa scaturite, nonchè il diverso modo di esprimere i concetti che ogni epoca ha avuto. I riferimenti alle uscite dal corpo si trovano spesso descritti nei testi di vecchi filosofi o scrittori o teologi, magari non famosi, oltre che sui testi occulti delle antiche filosofie esoteriche. Sembra che anche Padre Pio abbia avuto molte esperienze di viaggio astrale o più precisamente di bilocazione (Padre Pio Bilocazione) e questo fa parte della storia recente probabilmente descritte con termini e concetti a noi più vicini. Se leggiamo ad esempio storie di Sciamani del Perù ci viene descritto che una volta usciti dal corpo, gli Sciamani, sotto forma di uccelli, volavano nella foresta alla ricerca del nemico. In altri casi le descrizioni sono ancora più astruse ma se leggessimo resoconti di filosofi o teologi antichi come Plutarco, Erodoto o Ermotimo di Clazomene spesso le esperienze sono banalmente descritte come uscite dal corpo normalissime per far visita a parenti, amici o andare a sbirciare i piani segreti di eserciti nemici.

Le antiche popolazioni credevano molto nel legame tra sogno e contatto con i piani sottili, nella cultura moderna forse si è perso questo valore dopo l’avvento della psicoanalisi che margina i nostri sogni a puri schemi composti da simboli interiori atti a comunicarci visivamente problemi o aspettative di vita. Nelle culture tribali o scimaniche era normale tentare di riprodurre esperienze extracorporee attraverso l’uso di droghe o simili, oggi nelle culture occidentali moderne l’avvicinamento alle esperienze di viaggio astrale si cercano attraverso esercizi di rilassamento, di respirazione o tecniche meditative in genere tutte ispirate dalle antiche filosofie orientali per abbracciare l’esperienza in modo graduale, non nocivo e controllabile.

OBE e NDE presso le culture tradizionali (Roberto De Angelis)

Articolo pubblicato su: Quaderni di Parapsicologia XXXVI – n. 1, 65-86, XXXV – n. 1, 83-98.


Non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla…

Dante, Purg., X, 124

INTRO

Accostandosi allo studio di determinati complessi religiosi a base estatica, primo fra tutti lo sciamanesimo, si resta spesso perplessi di fronte alla ricca fenomenologia ivi documentata. Perplessi per la forte somiglianza con esperienze tuttora testimoniate da individui appartenenti a contesti storici e culturali completamente differenti. Lo studio dei fenomeni di OBE (“Out of Body Experiences”, esperienze fuori dal corpo) ha conosciuto negli ultimi anni una notevole fioritura, grazie anche allo stimolo offerto da ricerche come quelle ormai classiche di Raymond A. Moody sulle esperienze di NDE (“Near-Death-Experiences”) o pre-morte (Life After Life, 1975; Reflections on Life After Life, 1977). Un numero sempre crescente di ricercatori ha iniziato ad interessarsi ai viaggi extracorporei, alla bilocazione, e nei laboratori di parapsicologia si sono approntati diversi esperimenti che hanno dato, come vedremo, risultati assai interessanti.

FENOMENI REALI?

Accertare la realtà di tali fenomeni su base meramente etnologica non è certo agevole, perché il materiale a nostra disposizione si riferisce a contesti che non offrono nessuna possibilità concreta di verifica dei dati. Inoltre resta sempre aperta la possibilità che i viaggi astrali, per quanto realistici per chi li sperimenta, non siano altro che immagini mentali prodotte dal cervello in particolari condizioni psico-fisiche. Una sorta di allucinazione o di sogno lucido, insomma, ma niente di più (questa è l’opinione, ad esempio, di alcuni medici, come Jean Lhermitte o D. H. Rawcliffe, secondo i quali le esperienze extracorporee non sarebbero altro che immagini mentali dovute a particolari stati psico-patologici).

Eppure, esiste tutta una serie di testimonianze moderne che sembrerebbero avvalorare ipotesi diverse e più affascinanti. Ad esse ci appoggeremo per corroborare i dati etnografici e per consentire, ove possibile, una comparazione tra i vari contesti. In parapsicologia, l’OBE viene considerata la forma spontanea di una particolare forma di “chiaroveggenza viaggiante” (travelling clairvoyance), su cui molti esperimenti sono stati fatti nel corso del . Riferisce ad esempio il dott. Milan Ryzl (Ryzl, 1971):

Alfred Backman, di Kalmar (Svezia), espose anche lui parecchi esperimenti eseguiti con pieno successo, in cui il soggetto era capace di descrivere scene che si svolgevano in luoghi distanti. Molto interessanti gli esperimenti fatti con una ragazza, Alma Radberg. Un caso notevole è quello in cui chiese ad Alma di andare con il pensiero all’ufficio di un direttore di società, in cui lei non era stata mai. Essa vide il direttore seduto al suo scrittoio e descrisse minutamente la stanza in cui era. Allora Alma fu invitata a cercar di afferrare un mazzo di chiavi che aveva visto sul piano dello scrittoio, a stringere le chiavi e a toccare con l’altra mano la spalla del direttore, in modo da attirarne l’attenzione. Alma affermò che il direttore se ne era accorto. Il direttore, che non sapeva affatto che si stesse facendo un esperimento con lui, dichiarò, più tardi, che aveva provato una strana sensazione, quel giorno e in quel momento. Egli era assorto nel suo lavoro, quando improvvisamente il suo sguardo fu attirato da un mazzo di chiavi che stava accanto a lui, sullo scrittoio, dove non usava posarle mai. Allora vide qualcosa che vagamente sembrava una figura di donna. Pensando che fosse la cameriera, non ci badò. Siccome, tuttavia, la figura continuava a riapparire, chiamò e si alzò per vedere che cosa accadeva. Seppe così che nessuno era entrato nella stanza.

E ancora:

In un altro esperimento simile, di “chiaroveggenza viaggiante” secondo il procedimento degli esperimenti di Backman, fu veduto il fantasma della persona ipnotizzata sul luogo dell’accertamento. Durante la sua permanenza ad Uppsala, Björkhem ipnotizzò una lappone e le ordinò di andare mentalmente dai suoi parenti, a circa cento miglia di distanza. La ragazza descrisse la scena che si svolgeva in cucina, disse ciò che stavano facendo il padre e la madre: trovò l’articolo di giornale che suo padre stava leggendo in quel momento. Qualche ora dopo, i genitori della ragazza telefonarono ad Uppsala, dissero che avevano veduto la figura della figlia apparire nella cucina, e temevano che ciò potesse significare cattive notizie su di lei.

Mi pare che il dettaglio dell’apparizione del “fantasma” abbia un’importanza del tutto particolare ai fini della nostra indagine. Se infatti alcune esperienze di proiezioni extracorporee possono essere ricondotte a semplici espisodi di chiaroveggenza, l’apparizione del fantasma offre un criterio di oggettività difficilmente trascurabile, specie se questo fantasma riesce perfino ad interagire con l’ambiente fisico circostante. Permetteteci di citare ancora da Ryzl:

Mr. S.R. Wilmot salpò da Liverpool per New York. Quando la nave era già in alto mare, una volta, verso il mattino, vide sua moglie entrare nella sua cabina: ella andò fino alla sua cuccetta, gli diede un bacio, e dopo un po’ tornò via. La figura della donna fu veduta anche da un compagno di Mr. Wilmot, che divideva con lui la cabina. Quando Mr. Wilmot arrivò a New York, la prima domanda che gli rivolse la moglie fu se egli si era accorto che lei era andata a trovarlo durante il viaggio nella sua cabina. Precisò il giorno in cui la cosa era accaduta e gli disse che era in pena per lui: aveva avuto allora la sensazione di passare sopra un mare tempestoso, trovò la nave su cui egli si era imbarcato, arrivò alla sua cabina e lo baciò. La donna descrisse anche esattamente la nave, che non aveva mai veduto prima, e l’arredamento della cabina.

H. B. Greenhouse riferisce (Greenhouse, Il corpo astrale, Milano 2000, p. 16) il singolare esperimento effettuato dalla scomparsa Eileen Garrett, una grande sensitiva del secolo scorso che, proprio allo scopo di dimostrare la realtà del viaggio extracorporeo, ne intraprese volontariamente uno alla presenza di un segretario che prendeva appunti e di uno psichiatra come osservatore.

La signora Garrett cercò di trasportarsi da un appartamento di New York nell’ufficio di un medico a Terranova, nel Canada. Il dottore percepì la sua presenza e chiese all’invisibile signora Garrett di osservare gli oggetti sul tavolo. Nello stesso istante lei descriveva gli oggetti standosene seduta a New York. Poi il medico prese un libro da uno scaffale e lesse in silenzio un paragrafo sulla teoria della relatività di Einstein, che la signora Garrett recitò parola per parola a New York. Mentre egli stava leggendo il libro, la proiezione astrale della Garrett notò che la testa del dottore era bendata, ma, a New York, lo psichiatra disse: “Non è possibile: ho ricevuto una lettera dal dottore pochi giorni fa e allora stava benissimo”. Il giorno dopo arrivò un telegramma dal dottore che dichiarava di essersi ferito alla testa proprio prima dell’esperimento. In seguito mandò una lettera per confermare tutto ciò che la signora Garrett aveva descritto durante il suo viaggio extracorporeo, compresi gli oggetti sulla tavola e il paragrafo su Einstein.

Da diversi anni, inoltre, il fenomeno delle OBE viene studiato in laboratorio presso strutture apposite da eqipés di specilisti. In questi esperimenti i soggetti esaminati devono dimostrare di poter ottenere, in astrale, dati a loro inaccessibili per altre vie.

Presso l’ American Society for Psychical Research (ASPR) è stato ad esempio progettato un esperimento di viaggio extracorporeo nel quale dei sensitivi proiettano il loro “Io” da diverse parti del paese in una stanza dell’edifico della Società e devono in seguito descrivere (per posta o per telefono) ciò che hanno visto nella stanza durante le loro visite. A Durham, nel North Carolina, la Psychical Research Foundation (PRF, ora American Institute of Parapsychology) conduce prove durante le quali il sensitivo si proietta in una stanza occupata da esseri umani e da animali che possono percepire la sua presenza, e da macchine capaci di registrare ogni cambiamento dell’ambiente fisico della stanza.

Il dott. Robert Tart, uno psicologo e docente presso la University of Virginia Medical School, tentò un esperimento con una giovane donna che aveva avuto molte bilocazioni spontanee. Il soggetto doveva andare a dormire in una camera del laboratorio mentre, nella stanza accanto, Tart osservava i tracciati del suo elettroencefalogramma. In uno scaffale sospeso al soffitto nella stanza della donna, vi era un foglio di carta su cui era scritto un numero di cinque cifre, fuori dal suo raggio visivo. Dopo quattro notti di tentativi parzialmente falliti, ella riuscì a sollevarsi fino al soffitto e lesse correttamente il numero [Cfr. Tart, Charles T., “A Psychophysiological Study of Out-of-the-Body-Experiences in a Selected Subject”, Journal, ASPR, Vol. 62, No. 1, Jan. 1968].

Molto interessanti sono anche le ricerche sulla “visione a distanza” (remote viewing) condotte presso lo Stanford Research Institute (SRI) a Menlo Park, in California, dai fisici Russell Targ e Harold Puthoff, già impegnati nel prestigioso “Progetto Stargate” voluto e finanziato dalla CIA in tempi di Guerra Fredda. Nei loro esperimenti i due ricercatori utilizzano aree bersaglio esterne: in un’occasione fu chiesto ad Ingo Swann, un soggetto assai ben esaminato, di proiettarsi in una località situata dalla parte opposta del globo, della quale gli furono indicate le coordinate. Swann si proiettò nell’Oceano Indiano, in un’isola talmente piccola da non essere nemmeno segnata nella maggior parte delle carte. Swann disegnò uno schizzo del posto, e un confronto con la mappa dell’isola reale mostrò che lo schizzo e la mappa erano quasi identici, perfino nei particolari di una grande montagna bianca nella zona occidentale. Un secondo soggetto esaminato da Targ e Puthoff è Pat Price, che si presentò volontario agli esperimenti. Essendogli state fornite le stesse coordinate geografiche, Price si recò immediatamente nell’isola e ne disegnò una piantina molto accurata, ancora più particolareggiata di quella di Swann. Egli non solo vide l’isola ma ne udì gli abitanti parlare in francese (vi era infatti situata una stazione meteorologica francese).

In una serie di prove iniziata verso la fine del 1973, uno o più membri del personale del SRI si recavano in macchina in una località nei dintorni di San Francisco scelta a caso e vi rimanevano per mezz’ora. Nel laboratorio Price sedeva con lo sperimentatore, generalmente il dott. Targ, e cercava di proiettarsi nel luogo dov’era andata la macchina, sebbene né lui né il dott. Targ avessero avuto qualche precedente informazione sulla scelta dell’area. Cinque scienziati del SRI, che non facevano parte del progetto, valutarono i risultati, correlando esattamente sei delle nove località con la descrizione datane da Price. Le descrizioni di Price, sia verbali che con disegni, erano spesso così accurate che Targ poteva individuare la località senza che gli dicessero dove era [Targ, Russell, and Harold Puthoff, “Information Transmission Under Conditions of Sensory Shielding”, Nature, Vol. 251, No. 5476, Oct. 18, 1974, pp. 602-7].

Ritengo sufficiente, per il momento, l’aver ricordato alcuni tra i più significativi risultati forniti in questo campo dalla ricerca parapsicologica recente, dal momento che lo scopo di questo studio non è quello di stabilire la realtà dei viaggi extracorporei, ma semplicemente quello di tracciare, ove possibile, dei paralleli morfologici tra le testimonianze moderne e quelle etnologiche o storico-religiose.

Certo, quando ci si imbarca in comparazioni a così ampio raggio si corre sempre il rischio di cadere in arbitrarie generalizzazioni. Occorre analizzare i singoli contesti culturali per coglierne la specificità. E tuttavia, in certi casi ci si trova di fronte a temi con caratteristiche tanto ricorrenti che è davvero difficile non coglierne l’unità di fondo. Il viaggio extracorporeo è uno di questi temi, come cercherò di dimostrare. Alla base c’è l’idea di un elemento che, pur trovandosi nel corpo, può in determinate circostanze separarsene e muoversi indipendentemente da esso. Il nome, la forma e le caratteristiche di questo quid variano a seconda del contesto di riferimento. Noi, per comodità espositiva, ci riferiremo a questo elemento utilizzando sempre il termine anima.

L’ANIMA/CORPO ASTRALE

Diceva Eraclito: «Anche se tu avessi percorso tutte le strade, mai scopriresti le frontiere dell’anima, tanto è profonda la sua vera essenza». E c’è senz’altro del vero in questa affermazione, dal momento che ancora non esiste una definizione univoca e definitiva di ciò che s’intende col termine anima. Alessandra Ciattini, rifacendosi ad un libro di Child e Child [Religion and Magic in the Life of Traditional Peoples, Prentice Hall, Englewood (NJ) 1993] propone questa definizione di minima: con la parola anima si indica il sé inteso come entità mistica, la quale, pur essendo legata al corpo e ad alcune sue funzioni, non scompare definitivamente con esso, ma segue un suo proprio destino che varia nelle diverse culture e società. E subito precisa: «Non si deve intendere questo principio – come nella tradizione ebraico-cristiana – in termini nettamente spiritualistici e trascendenti. In molti casi […] l’anima è concepita come l’immagine eterea e vaporosa del corpo, al quale è immanente» (A. Ciattini, Antropologia delle religioni, Roma 1998, p. 216). Occorre dunque fare almeno un cenno alle diverse modalità in cui l’anima viene concepita, per comprendere se e in che misura le immagini tradizionali possono essere accostate o magari assimilate alle testimonianze moderne.

Etimologicamente, anima è termine di origine latina (dalla stessa radice del greco ánemos, vento, e con lo stesso senso di spiritus, in greco pnéuma, cioè aria, soffio, respiro). Nelle culture più arcaiche essa viene concepita per l’appunto come vento, o come respiro, che al momento della morte abbandona il cadavere fuoriuscendo dalla bocca o da altre parti del corpo. Da ciò l’usanza di aprire le porte e le finestre della casa in cui avviene il decesso, onde facilitare la partenza dell’anima o, al contrario, di serrarle (per una trattazione più approfondita vd. A. M. Di Nola, La nera signora, Roma 2001, p. 210 sgg.). L’idea di un’anima volatile che s’innalza verso il cielo al momento della morte si riflette nelle immagini di animali volanti con cui è stata variamente rappresentata: farfalla (in moltissime culture tradizionali fin dai tempi più antichi, per l’analogia tra la pupa che con la metamorfosi si libera dall’involucro e l’anima che al momento della morte si libera dal cadavere; il greco utilizza lo stesso termine – psyché – per indicare tanto l’anima che la farfalla, e lo stesso avviene tra i Baschi, i Birmani e gli Sloveni), mosca (Finistère, Bretagna, Transilvania…), ape (Grecia moderna), lucciola (Calabria e altre parti d’Italia), calabrone (Friuli), uccello (Romani, Greci, Germani, Boemi, ecc.; colomba soprattutto nel cristianesimo, cuculo nel Montenegro; cigno in Scozia, rondine in Belgio; Finni e Lituani chiamano la Via Lattea sentiero degli uccelli, cioè delle anime) (Ibid., p. 261).

Tutte queste anime-animali rientrano in quella più ampia categoria utilizzata in storia delle religioni per indicare l’anima posta fuori dal corpo, quella cioè di anima esterna (cfr. van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Torino 1992, II, § 42). Anche l’anima del sogno viene considerata un’anima esterna. Scrive Van der Leeuw: «Sogno, malattia e morte sono altrettanti casi particolari dell’esteriorizzazione dell’anima. Il viaggio in sogno è una delle esperienze più comuni. […] Nel caso della malattia, dello svenimento, del sonno, gli Indonesiani credono che l’anima sia assente. […] I Toradja di Celebes credono che durante il sonno l’anima viaggi: Dormivo così profondamente, / che l’anima mia mi lasciò. / Dormendo e sognando / giunsi al regno dei morti” (Op. cit., p. 234). Eccoci dunque ad un punto fondamentale. Tradizionalmente l’anima viene considerata un’entità in grado di separarsi dal corpo in determinate circostanze (morte, sonno, trance…) e di muoversi liberamente nello spazio (e a volte nel tempo), come se volasse. La parapsicologia classifica questo genere di esperienza come OBE, e analizzando alcune testimonianze antiche e moderne ci renderemo facilmente conto che tra viaggi astrali e voli dell’anima non c’è, in definitiva, soluzione di continuità.

Scrive Greenhouse (Op. cit., pp. 26-27):

Il doppio ebbe un nome diverso in ognuno degli antichi paesi. Gli Ebrei lo chiamavano ruach. In Egitto era noto come ka, una copia esatta del corpo fisico ma meno denso. I Greci lo conoscevano come eidolon, i Romani come larva, mentre nel Tibet ancor oggi è chiamato il corpo bardo. In Germania era lo Jüdel o Doppelgänger e in Norvegia il fylia. Gli antichi Britanni gli davano vari nomi: fetch, waft, task e fye. In Cina il thankhi lasciava il corpo durante il sonno ed era visto da altri. L’antico Cinese si concentrava per ottenere un viaggio extracorporeo, e il secondo corpo si formava nel plesso solare per azione dello spirito. L’abbandono del corpo da parte del doppio attraverso la testa e altri processi extracorporei familiari agli studiosi di bilocazione furono dipinti su tavolette di legno del XVII secolo. L’antico Indù parlava del principio del secondo corpo come del Pranamayakosha. I Buddhisti chiamavano il doppio rupa. Scritti buddhisti dei Tantra del Tibet e di parte della Mongolia, citati da D. Scott Rogo nell’Intenational Journal of Parapsychology, descrivono la bilocazione e affermano che Buddha non approvava che i suoi seguaci cercassero di abbandonare il loro corpo.

Lo stesso folklore europeo conosce casi assai interessanti di bilocazione. In The Secret Commonwealth Robert Kirk, un ministro presbiteriano scozzese vissuto nella seconda metà del Seicento, afferma: «Alcune persone che per arte o per natura hanno quella vista acutissima [cioé dei veggenti] mi hanno raccontato di aver visto a quelle riunioni un uomo doppio o la figura dello stesso uomo in due posti [diversi]» [Robert Kirk, Il regno segreto, a cura di Mario M. Rossi, Milano 1993, p. 17]. Più oltre, citando un resoconto fattogli dal parroco di un paese vicino, racconta: «Riguardava una giovane della sua parrocchia che era terribilmente spaventata perché vedeva la sua propria immagine sempre davanti a sé tutte le volte che andava fuori all’aria aperta» [Op. cit., p. 51].

Ci sembra sufficiente. E’ chiaro che si tratta di un tema universale e le analogie sono innegabili. Ma prima di concludere la trattazione sull’anima, credo che potrebbe essere interessante ed utile soffermarci su due esempi particolari di “anime” in contesti culturali diversi da quello occidentale cristiano. Vorrei in particolare concentrarmi sul concetto di sombra, tipico del curanderismo andino, e poi sulla complessa riflessione tibetana sui vari “corpi” che formano l’essere umano. L’analisi di quanto ci dicono le fonti etnografiche e letterarie ci aiuterà anche a meglio comprendere la morfologia dell’anima e ad individuare eventuali parallelismi con le testimonianze moderne.

SOMBRA

Scrive Mario Polia, archeologo ed antropologo presso la Pontificia Universidad Catòlica del Perù (Lima): «La sombra, sebbene priva di sostanza materiale, conserva una stretta relazione di somiglianza con il corpo, tanto che – quando venga visualizzata per mezzo delle droghe rituali, o si manifesti in sogno – può dedursi a quale persona appartenga. Essa intrattiene, nei riguardi del corpo, una relazione funzionale: agendo – in male, o in bene – sulla sombra… si può agire analogamente sulla persona» (M. Polia, Le “sindromi culturali” da perdita della sombra nel curanderismo andino del Perù settentrionale, in Magia, medicina, religione, valori II, a cura di Vittorio Lanternari e Maria Luisa Ciminelli, Napoli 1998, p. 302).

La stessa relazione di somiglianza tra corpo fisico e corpo astrale viene riferita da molti protagonisti di OBE. In una lettera a Robert Crookall, una donna descrisse il suo doppio come «una copia esatta del mio corpo». Essa lo esperiva come solido, con respirazione normale e così via, ma allo stesso tempo poteva vedere il proprio corpo fisico sul letto, sotto di sé. I Sora dell’India, ci informa Piers Vitebsky, credono che l’anima sia contenuta nel sangue ed abbia, perciò, la forma esatta del corpo in cui questo scorre. Dicono che l’anima è come una fotografia e gli anziani sora, come altri nel mondo, sono convinti che essere fotografati indebolisca l’anima. In Mysterious Worlds Dennis Bardens scrive di un giovane studente di college che vide apparire nella sua stanza la testa del padre con il volto «velato dall’oscurità». Suo padre stava facendo una proiezione volontaria. Uno dei corrispondenti di Celia Green scrisse: «Io mi sollevai dal corpo come una bianca nuvola della mia stessa forma ma senza peso» (cit. in Greenhouse, p. 75). Moody, schematizzando un’esperienza-tipo di pre-morte, così si esprime nei riguardi del secondo corpo: «[Il soggetto] avverte di avere ancora un corpo, ma di una natura assai diversa e dotato di poteri assai diversi da quelli del corpo fisico che ha lasciato dietro di sé». Questo ci riporta alla mente quel passo dell’apostolo Paolo: «Ci sono dei corpi celesti e dei corpi terrestri; ma altro è lo splendore dei celesti, e altro quello dei terrestri … Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita glorioso; è seminato debole e risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale. Se c’è un corpo naturale [soma psychikon], c’è anche un corpo spirituale [soma pneumatikon]» (I Corinzi 15:40-44). Un altro corpo dunque, simile a quello fisico ma distinto e indipendente da esso.

Continua Polia: «Separata dal corpo, la sombra mantiene coscienza e identità autonome». E chiaramente lo stesso può dirsi del corpo astrale, che altrimenti non potrebbe percepire quelle esperienze che poi vengono riferite. «Ero uscito dal mio corpo … ma continuavo a pensare, come nella vita fisica», afferma uno dei soggetti studiati da Moody (La vita oltre la vita, cit, p. 50). Lo stesso principio è alla base di qualsiasi attività sciamanica. Se lo sciamano non rimanesse cosciente durante i viaggi nel mondo degli spiriti, non potrebbe avere nessuna memoria delle proprie esperienze, e non sarebbe quindi uno sciamano. Stesso discorso per gli yogin: «Realizzando, grazie al prânâyâma [disciplina della respirazione], il ritmo proprio del sonno, lo yogin può penetrare, senza rinunciare alla sua lucidità, gli “stati di coscienza” propri del sonno. … Lo yogin può dunque penetrare tutte le modalità della coscienza. Per l’uomo profano, esiste una discontinuità tra queste diverse modalità; si passa così dallo stato di veglia a quello di sonno senza averne coscienza. Lo yogin deve conservare la continuità della coscienza, cioè deve penetrare, calmo e lucido, in ciascuno di questi “stati”» (Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, Milano 1999, p. 65).

Scrive ancora Polia: «Può eseguire azioni indipendenti dal corpo e altrimenti impossibili da compiersi: come “viaggiare” nello spazio e nel tempo a scopi divinatori; passare attraverso corpi solidi raggiungendo istantaneamente luoghi remoti; stabilire un contatto diretto con entità mitiche; influire sulla salute di altre persone; ecc». Il brano è di estremo interesse, perché individua delle importanti analogie tra concezione tradizionale e testimonianze moderne. In quanto corpo “sottile” (spirituale o semifisico), il doppio può muoversi liberamente nello spazio e nel tempo, e non sembra vincolato alle normali leggi della fisica. Attraversa porte chiuse e pareti, come se non avessero consistenza. Scrive Moody: «Oltre a non essere apparentemente in grado di farsi udire da quanti gli stanno vicini, l’individuo entrato nel corpo spirituale si accorge di essere invisibile … Il corpo spirituale non è un corpo solido; gli oggetti lo attraversano agevolmente, ed è incapace di afferrare cose o persone … Si può passare attraverso la porta. Muoversi, quando ci si è fatta l’abitudine, sembra particolarmente facile. Gli oggetti fisici non rappresentano un ostacolo e spostarsi da un luogo all’altro è estremamente rapido, quasi istantaneo» (La vita oltre la vita, cit, pp. 46, 47). Agli stessi fenomeni, evidentemente, allude il Bardo tödöl, il Libro tibetano dei morti, quando afferma:

«… Quando poi lo stesso libro dice (di quel corpo), che “non trova resistenza”, vuol dire che tu adesso hai un corpo mentale e il pensiero è stato separato dal suo sostegno ed il corpo non è più una cosa materiale; e perciò adesso hai la facoltà di passare, senza trovare resistenza, anche traverso il (monte) Sumeru e le case e la terra e le pietre e le rupi montane. … In un solo istante puoi girare intorno ai quattro continenti insieme con il monte Sumeru; o in qualunque altra terra ti piaccia puoi arrivare in un secondo, appena tu vi rivolga il pensiero. Hai la potenza di arrivarvi in tanto poco tempo quanto ce ne vuole per distendere o piegare il braccio; delle più prodigiose facoltà che ti vengano in mente non ce n’è una che tu non possa ora mostrare [cioè in questa condizione di corpo sottile il defunto possiede le facoltà magiche (siddhi) che, nella vita, solo gli uomini perfetti possono conseguire appunto perché con lo yoga essi riescono a separare, a volontà, il principio cosciente col suo sottile involucro dal corpo materiale, N.d.C.]» (Il libro tibetano dei morti, a cura di Giuseppe Tucci, Milano 2001, pp. 140, 141). Vedremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo le credenze tibetane in merito al corpo astrale.

«La sombra – è sempre Polia a parlare – abbandona naturalmente e inconsciamente il corpo nel sonno, durante il sogno, e – coscientemente – quando il curandero in trance effettua il “viaggio” o “volo” fuori dal corpo». Credenza diffusa, come abbiamo già detto, anche in ambiente sciamanico: «La logica sciamanica parte dall’idea che l’anima possa staccarsi dal corpo. Ciò accade a tutti quando si muore, ma l’esperienza del sogno è portata a dimostrazione che l’anima può anche vagare per suo conto, e ritornare, senza provocare la morte. I membri delle società sciamaniche spesso vedono il volo dell’anima durante la trance come una sorta di sogno pilotato, nella quale un’esperienza umana naturale ma involontaria viene trasformata in una tecnica controllata» (P. Vitebsky, Gli sciamani, Singapore 1998, pp. 13, 14). Il che non può non ricordarci i c.d. sogni lucidi, che presentano caratteristiche per molti versi analoghe all’esperienza extracorporea e che a volte si sovrappongono ad essa o ne sono l’anticamera. Lo stesso Corano testimonia di questa credenza – nota, sembra, anche alla tradizione rabbinica: «Dio chiama a sé le anime al momento della loro morte, e anche le anime che non muoiono, durante il sonno; e trattiene quella alla quale ha decretato la morte e rinvia le altre fino a un termine fisso. E certo v’han segni in questo per gente che sa meditare» (XXXIX, 42, trad. Bausani). Durante il sonno, dunque, le anime sono richiamate a Dio (il termine utilizzato significa “far morire” nel linguaggio ordinario) e rimandate indietro al mattino. Detto in altri termini: a chi muore e a chi sogna capita la stessa cosa, con la sola differenza che chi sogna fa poi ritorno nel proprio corpo, mentre chi muore resta definitivamente “presso Dio”. Non solo, ma viene detto perfino che ci sono dei “segni” a dimostrazione di ciò… A quali segni si allude? Forse a qualche tipo di esperienza extracorporea? Non lo sappiamo, e quindi non azzardiamo ipotesi. Ci limitiamo soltanto a ricordare che da questa credenza deriva la grande importanza attribuita ai sogni in tutta la letteratura islamica e anche nella Fede Baha’i.

Seguiamo ancora Polia: «La sombra presiede all’identità psichica, e soprattutto governa la sfera del carattere e della personalità; coordina o determina le facoltà intellettive. […] Quando l’assenza della sombra si prolunga oltre un certo lasso di tempo, le principali funzioni psichiche sono alterate, o impedite: nelle narrazioni, spesso il termine sombra si alterna a quello di razòn come facoltà di intendere e di volere. Quando la sombra s’allontana dal corpo la morte non sopravviene immediatamente, ma dopo un tempo variabile in funzione della capacità vitale della persona e dell’intensità del “danno” magico o del trauma che ha provocato il distacco della sombra. Al contrario, come tutti i miei intervistati sono concordi nell’affermare, quando la ànima o l’espìritu s’allontanano dal corpo il risultato immediato del loro distacco è la morte». Esisterebbe, quindi, una pluralità di anime, come in effetti credono in molti. Dice a tale proposito Alessandra Ciattini: «Citando vari resoconti etnografici, ad esempio, Tylor ricorda che gli abitanti delle isole Figi (Melanesia) distinguevano tra l’ombra, destinata ad andare agli Inferi, e lo spirito riflesso nell’acqua o nello specchio, che sta vicino al corpo fino alla sua morte. I Malgasci, invece, parlano di un principio animico detto saina (mente), che scompare con la morte, di una seconda entità detta aina (vita) che si trasforma in aria, ed infine del matoatoa o spettro che volteggia presso la tomba. Ovviamente si potrebbero fare tanti altri esempi di queste concezioni, mi limito a ricordare che esse non sono proprie solo delle società esotiche, ma appaiono anche in quelle più complesse e stratificate. Basti ricordare la distinzione presente nella filosofia classica e medievale tra l’anima vegetativa, sensitiva e razionale» (Antropologia delle religioni, cit, p.218).

Per restare in ambito più propriamente sciamanico, possiamo citare ancora Vitebsky: «Molti popoli credono che gli esseri umani abbiano più di un’anima. Le anime degli sciamani sono in grado di raggiungere altri regni e le anime delle persone normali possono essere rapite da spiriti o sciamani nemici, mentre per quel periodo il loro corpo rimane in vita. L’anima che si allontana dal corpo rappresenta la coscienza o la personalità dell’individuo [cfr. con quanto detto da Polia], mentre l’anima che rimane continua a coordinare le funzioni vitali del corpo. Se la prima di queste due anime non torna, la seconda non sopravviverà a lungo. […] Gli eschimesi generalmente credono nell’esistenza di una terza anima, che coinciderebbe con il nome della persona, il quale viene trasmesso a un individuo della generazione successiva. Gli Yuchi e i Sioux del Nord America, invece, hanno quattro anime ciascuno. Sono possibili anche altre varianti: fra gli Jívaro dell’Amazzonia l’anima capace di allontanarsi è associata allo spirito guardiano della persona, mentre fra i vicini Yagua ogni individuo ha due anime da vivo e altre tre che diventano attive (e pericolose) solo dopo la sua morte. La stessa esistenza di spiriti aiutanti suggerisce che le culture sciamaniche abbiano un’idea della persona meno strettamente legata al corpo di quanto non lo sia nelle culture delle società industriali» (Op. cit., p. 14). Anche nella casistica OBE esistono esempi di corpi astrali multipli: uno dei corrispondenti di Sylvan Muldoon, ad esempio, chiamò i suoi corpi 1, 2 e 3. Durante una proiezione la sua coscienza era nel corpo 2, che osservava il suo doppio, numero 3, camminare, e il suo corpo fisico, numero 1, da un lato. Ma sono eventi del tutto eccezionali, e non ci soffermeremo oltre su di essi.

«Dopo la morte, la sombra sopravvive in un’esistenza fantasmatica, conservando pur sempre le peculiarità fisiognomiche e caratteriali proprie della persona cui appartenne; essa gravita attorno ai resti dei morti, alle loro tombe e ai luoghi da essi frequentati. La sombra sopravvive dunque al corpo ma non condivide il destino dell’anima o dello spirito, dal momento che questi sono da Dio giudicati secondo le norme dell’etica cristiana, mentre essa resta in questo mondo permanendo nei luoghi dove la persona è vissuta, o dov’è sepolta. Le sombras dei defunti dimorano nella controparte mitica di “questo mondo”: in una zona cosmica diversa da quella in cui agiscono le entità mitiche ancestrali (gli encantos), ma comunque in dimensioni dell’essere diverse da quelle del mondo religioso, e attingibili mediante l’esperienza onirica o la trance».

BARDO TÖDÖL E NDE

Questo passo ci aiuta ad introdurre un tema di estrema importanza nello studio delle esperienze extracorporee, ovvero il loro rapporto con la morte. Come già si è accennato, varie sono le occasioni in cui l’anima si distacca dal corpo. La più importante di queste è, ovviamente, proprio la morte. Le ormai celebri indagini del dott. Moody sono state effettuate proprio tra individui che, avendo vissuto delle esperienze di pre-morte (NDE), riferiscono poi, tra le altre cose, delle “uscite dal corpo” del tutto analoghe a quelle documentate in numerosi scritti tradizionali. Il più famoso di questi scritti è forse il c.d. Libro tibetano dei morti, il cui titolo originale è Bardo tödöl, un testo del Buddhismo tibetano noto in Europa sin dal 1927, quando W. Y. Evans-Wentz ne pubblicò in inglese la traduzione fatta dal Lama Kazi Dava-samdup. Come dice Giuseppe Tucci, «il trattato si volge ai morituri o ai morti: non serve ai vivi, o serve soltanto perché, per ogni vivente, verrà il giorno della morte» (dall’Introduzione all’ed. it.). Questo ci fa subito comprendere l’importanza di un tale documento per la nostra ricerca. Effettivamente, scorrendo le pagine di questa sorta di “guida al mondo dell’oltretomba” ci si imbatte in frasi assai suggestive, la cui analogia con certe testimonianze di persone che abbiano vissuto esperienze di pre-morte è certamente notevole. Facciamo solo qualche esempio.

Quello che il Tantra dice, che “il tuo corpo adesso è provvisto di tutti sensi interi e non trova resistenza”, vuol dire che se durante la vita tu eri cieco, sordo, zoppo, adesso, nello stato dell’esistenza intermedia, gli occhi vedranno chiaramente gli aspetti delle cose e le orecchie udranno i suoni e tutti i sensi saranno senza difetto e chiari e completi.

 … Quando il testo dice “veduto dagli esseri che appartengono alla medesima specie (che sono dotati) dell’occhio divino puro” il senso è che tutti quanti sono rinati nello stato dell’esistenza intermedia ed appartengono alla stessa specie carmica si vedono l’un l’altro.

… Per chi possiede un corpo cosiffatto i luoghi, i parenti, i congiunti diventano come le persone incontrate nel sogno. Tu chiamerai i parenti ed i congiunti, ma quelli non risponderanno; allora vedendo che i parenti e i familiari piangono, penserai che sei morto e proverai una pena molto forte.

… Quando, agitato dall’inquieto vento del carma, non sarai più padrone di te stesso e il tuo pensiero non avendo il suo sostegno (corporeo), se ne andrà di qua e di là sul cavallo del respiro tremulo e lieve come una piuma, a quelli che piangono dirai: “Io sono qui, non piangete” e quelli non udranno e tu penserai che sei morto e soffrirai grande dolore (Il libro tibetano dei morti, cit, pagg. 140-142).

Riassumendo: secondo il Bardo tödöl, dopo la morte l’anima presenta dei sensi perfettamente funzionanti, si muove nel mondo fisico ma senza essere percepita e, nello stesso tempo, può percepire la presenza di altri esseri spirituali. Il defunto, senza comprendere di essere morto, cercherà anzi di attirare l’attenzione dei propri cari per consolarli, per calmare il loro pianto ma, non riuscendoci, se ne addolorerà. Lo stesso concetto viene ribadito più volte:

«In quel momento il principio cosciente esce fuori del corpo e non sa se (il corpo, in cui fu) è vivo o morto. Seguita a vedere, come per l’innanzi, parenti e consanguinei e sente anche i loro pianti. […] Il morto vede i congiunti piangere e gemere, mettere da parte la sua porzione di cibo, togliere a lui i vestiti, spazzare il luogo dove giaceva; ma essi qui non lo vedono. Egli sente che quelli lo chiamano; ma quando lui chiama essi non sentono» (Op. cit., pp. 81, 86).

A questo punto possiamo fare un confronto con quanto riferiscono alcuni soggetti intervistati da Moody.

Una donna che era stata portata in sala di rianimazione racconta: «Li vidi mentre mi rianimavano. Era davvero strano. […] Cercavo di parlare, ma nessuno poteva sentirmi, nessuno mi ascoltava» (La vita oltre la vita, cit, p. 45).

Un altro soggetto ricorda: «I dottori e le infermiere mi martellavano il corpo per cercare di rianimarmi e io continuavo a dire: “Lasciatemi in pace. Voglio solo che mi lasciate in pace. Smettetela”. Ma non mi sentivano. Allora cercavo di allontanare le loro mani perché la smettessero di percuotermi il corpo, ma non succedeva niente. Non potevo toccare niente» (Ibid., p. 45).

«Non potevo toccare nulla, non potevo comunicare con nessuno. E’ un sentimento impressionante?» (Ibid., p. 53).

CONOSCENZA

Un dato interessante è anche la particolare lucidità mentale che caratterizzerebbe chi è uscito dal corpo. Secondo il Bardo tödöl, «La consapevolezza è nove volte più chiara che in vita; e se nella vita uno fu stupido, in questo momento, a causa del carma, il suo pensiero diventa lucente ed ha la capacità di meditare su tutto ciò che gli viene insegnato» (Il libro tibetano dei morti, cit, p. 161). E’ ciò che afferma anche un soggetto intervistato da Moody: «Sono possibili cose che qui non lo sono. La mente è chiarissima. E’ piacevole. La mia mente agiva e pensava per me senza che io dovessi riflettere più di una volta sulle cose. E tutto quello che provavo giungeva infine ad avere un significato» (La vita oltre la vita, cit, pag. 51). Spiega in modo più dettagliato lo stesso Moody: «Molti mi hanno detto di avere scorto, durante il loro incontro con la “morte”, brevi immagini di un regno completamente diverso nel quale ogni conoscenza – del passato, del presente e del futuro – sembrava coesistere in una sorta di stato atemporale. La stessa esperienza mi è stata descritta come un momento di illuminazione nel corso del quale il soggetto sembrava godere di una conoscenza totale» (Nuove ipotesi sulla vita oltre la vita, p. 13). Sempre il Bardo tödöl afferma: «Di colui che si trovi nel secondo stato dell’esistenza intermedia si dice che possiede un puro corpo magico. Allora avviene una grande lucidità mentale nella quale il morto non riesce tuttavia a conoscere se è morto o se non è morto» (Il libro tibetano dei morti, cit, p. 83).

È un fatto che presso molte culture antiche, i morti venivano considerati custodi di una conoscenza globale inaccessibile ai viventi. Dice ad esempio Eliade: «Lo sciamano deve morire per poter incontrare le anime degli sciamani e per esser istruito da esse: perché i morti sanno tutto [Lublinski, p. 250. È una credenza universale che la mantica si spieghi col commercio coi morti]» (Lo sciamanismo, cit, p. 106). Questo è ciò che ricorda una donna intervistata da Moody: «Non so come spiegarlo, ma sapevo… Come si legge nella Sacra Scrittura: “Ogni cosa verrà rivelata”. Per un istante non vi fu una sola domanda che non avesse risposta» (Nuove ipotesi…, cit, p. 15). Ancora: «Sembrava che di colpo… conoscessi i segreti di tutte le età, tutto il significato dell’universo, le stelle, la luna – tutto». E subito precisa: «Ma quando decisi di ritornare, quella conoscenza svanì, e ora non riesco a ricordare nulla. Sembra che quando io decisi [di tornare] mi venne detto che non avrei potuto conservare la conoscenza» (Ibid., p. 14). Quasi che quella sorta di onniscenza fosse propria dei morti (dei disincarnati) e di essi soltanto, tanto che al momento di tornare in vita si è costretti a dimenticare ogni cosa.

TIBET

Passiamo adesso alle concezioni tibetane. Ci troviamo subito di fronte ad un panorama assai più complesso e sfaccettato, come ci si rende chiaramente conto leggendo queste belle righe di Giuseppe Tucci: «I continui riferimenti al corpo mayico (sgyu lus) ci inducono a trattare un punto estremamente importante: l’esistenza di un corpo sottilissimo, diverso dal corpo materiale consistente di cinque componenti psicofisici (p’ un po ecc.) ma inerente in esso, che rappresenta la continuità tra le diverse forme d’esistenza possibili dell’individuo. Nel corpo materiale [il corpo ha una natura duplice: a) corpo fisico (rag lus), che è la casa o il contenitore; e b) gñug mai lus, consistente di potenza di vibrazione, respiro (rlun), e sems. A questi si aggiungono il corpo spirituale sottile (yid lus) e lo sgyu lus, corpo mayico, che può sublimarsi in ye šes sku, rdo rje sku, corpo diamantino. “Vibrazione vitale” è il respiro, individuale e cosmico (prana), che è appunto definito spanda-sakti, forza, capacità vibratile], suo sostegno e supporto nel quale si agita insieme la vibrazione vitale, il sems, allo stato grossolano è presente il gñug mai lus, un corpo innato, un complesso psicofisico sui generis costituito da un alito (fine capacità di vibrazione [rlun]) che tende ad espandersi all’esterno, verso il regno dell’oggettività…».

E ancora: «Lo yid lus è “contaminato” (zag bcas), prova sensazioni piacevoli e spiacevoli, anzi come corpo è proprio di infiniti esseri o stati demoniaci dotati unicamente di questa corporeità (come i demoni adre e gli dei lha). Invece il corpo della coscienza sublimata (ye šes lus) è privo di qualsiasi maculazione (zag med) e non percepibile dall’uomo comune… Nel momento della morte esso abbandona il corpo al proprio destino, perché può salire alle Terre Pure (žin k’ams, paradisi) oppure scendere nei Luoghi Impuri, negli inferni… Nel sonno leggero e nel momento della morte la vibratilità connata col sems produce lo yid lus. Lo yid lus acquista la propria autonomia durante il sonno, appena diventano inattive le sei esperienze sensoriali (rnam par šes pa), e nella morte quando le esperienze sensoriali, negli individui che non hanno goduto esperienze liberatrici, si dissolvono in capacità di appercezione (yid rnam par šes)» (G. Tucci, Le religioni del Tibet, Milano 1997, pp. 85-87).

Per approfondire la raffinata concezione tibetana dei corpi sottili, rimandiamo direttamente al testo di Tucci. Ai nostri fini, mi sembra utile isolare solo due elementi specifici che possono essere ricondotti ad una concezione universale, ovvero: a) l’esistenza di una dimensione diversa da quella fisica e psico-fisica, b) la possibilità di separare il corpo spirituale dal corpo fisico al momento della morte o durante il sonno, quando tutti gli altri sensi sono sopiti.

Per quanto riguarda l’ambito della religione popolare, invece, le concezioni sono più vicine allo schema di base finora delineato. L’anima propriamente detta è una sola, il bla. Ha contorni precisi (gzugs) e viene descritto come un doppio, ossia come una sorta di sosia dell’individuo. Se qualcuno perde i sensi, si dice che il suo bla ha abbandonato il corpo; se qualcuno muore si dice che il bla si è separato dal corpo. In questi casi vengono celebrati dei riti destinati a riportare il bla nel corpo (Tucci ricorda tra gli altri: bla k’ug, bla bslu, ac’i bslu, riscatto del bla, riscatto dalla morte). Come abbiamo visto, proprio questo genere di riti è alla base delle pratiche sciamaniche. Anche in Tibet è diffusa la credenza in “spiriti guida”, detti aGo bai lha, divinità innate nell’uomo. Uno di essi (srog lha) sta a fianco dell’uomo dal momento della sua morte al momento del giudizio (su tutto questo vd. Tucci, cit, pp. 246-258).

L’ANIMA FUORI DAL CORPO

L’anima dunque è contenuta nel corpo, come in un involucro, gli dà vita ma non si confonde con esso. Appartiene ad una dimensione diversa da quella fisica entro cui si muove il corpo, e al momento della morte vi farà ritorno. «La destinazione dell’anima consiste nel liberarsi dal corpo per continuare a vivere in un altro mondo, alleggerita di tutto il gravame terreno. La liberazione momentanea conseguita nello stato di estasi deve diventare, dopo la morte, realtà senza fine. […] Si racconta che Aristeo era capace di abbandonare il corpo, come un cadavere, mentre l’anima, una volta uscita, si sollevava fino all’etere. […] Abbiamo già visto che l’anima è alata. Ma anche quando non ha ali, l’anima parte, salendo verso il cielo. Il suo viaggio segna una purificazione, ha per ultimo scopo l’unione con la divinità» (van der Leeuw, op. cit., pp. 242-243).

Queste righe rispecchiano da vicino le posizioni espresse da Platone. Socrate, apprendiamo dal Fedone, non aveva paura di morire: «Voglio dirvi la mia speranza: che raggiungerò uomini di valore, e che certamente arriverò da padroni ottimi, gli déi”. Poteva essere ottimista, perché “qualcosa per chi è defunto esiste per davvero» (63 c). Questa sua speranza si fondava su un concetto ben preciso, ovvero sul modo di concepire la morte. Cos’è la morte? si chiede ad un tratto. E risponde: «Distacco dell’anima dal corpo, che altro? E non è questo lo stato della morte: il corpo che, staccatosi dall’anima, se ne isola, lontano; e l’anima che dal corpo si distacca e se ne sta da sola, nell’isolamento? Non è vero che la morte è questo, nient’altro?» (64 c). Addirittura, il filosofo, parlando per bocca di Platone, giunge ad elogiare la morte in questi termini: «Se vogliamo una buona volta avere lo sguardo limpido su qualcosa, dobbiamo staccarci dal corpo e con lei, l’anima sola, individuare il nocciolo puro della realtà. E sono certo che solo in un periodo potremo avere ciò che desideriamo e di cui siamo innamorati, cioè la conoscenza intellettuale: ed è il tempo della morte, non della nostra vita […] perché proprio allora l’anima starà in sovrana indipendenza, staccata dalla carne: prima no» (66 e – 67 a). Il corpo è addirittura un ostacolo, dunque, una “trappola” da cui l’anima anela fuggire, purificarsi per tornare al puro. Abbiamo già visto come alcuni soggetti che hanno vissuto delle NDE riferiscano di una grande lucidità mentale, di una conoscenza universale assaporata per alcuni brevi istanti in seguito al distacco dal corpo.

GUIDE ED ENTITA’ SPIRITUAI

Proseguendo su questa falsariga, Socrate/Platone giunge persino a dare conto delle apparizioni di fantasmi che, evidentemente, già al suo tempo facevano notizia. L’anima, afferma, può non essere perfettamente pura al momento del distacco. Può non essersi completamente liberata dalle passioni carnali, e ciò rappresenta un ostacolo che le impedisce di fare ritorno ai luoghi luminosi dai quali è giunta. «Questo elemento carnale è plumbeo, greve, terrigno, visibile: averlo in sé, per un’anima di quel genere, significa farsi di piombo, affondare nuovamente nello spazio visibile, per terrore di ciò che non è visibile, dell’Invisibile – è questo il nome – e ciondola intorno alle steli, alle tombe, luoghi dove s’avvistarono spettrali parvenze d’anime, insomma quegli incubi che anime di questa tempra originano, anime slacciatesi dal corpo senza la purezza, impregnate ancora di materia, perciò materialmente visibili. […] Devono vagabondare finché per la febbre di quel loro ossessivo compagno, l’elemento carnale, s’imprigionano un’altra volta in un corpo» (81 c.e.). Ebbene, anche le testimonianze raccolte da Moody riferiscono di “spiriti confusi”, ovvero di esseri che sembravano incapaci di rinunciare all’attaccamento al mondo fisico. «Un uomo ha raccontato che gli spiriti da lui veduti “non potevano raggiungere l’altra sponda perché il loro dio vive ancora su questa”, poiché sembravano legati a un particolare oggetto, una persona, un’abitudine. In secondo luogo, tutti osservano come questi spiriti siano “spenti”, come la loro consapevolezza sembri limitata rispetto a quella di altri. Infine, si afferma che devono restare dove si trovano soltanto fino a quando abbiano risolto il problema o la difficoltà che li tiene in quello stato di incertezza» (Nuove ipotesi…, cit, p. 20). Una donna, in particolare, ricorda:

Mentre avanzavo, vidi una zona opaca – opaca se la si paragonava con la luce. Le figure avevano un aspetto più chiaramente umano di tutte le altre […]. Si potrebbe dire che avevano la testa curva, e uno sguardo triste, depresso; sembrava si trascinassero […]. Sembravano consunti, spenti, grigi. E pareva si trascinassero ininterrottamente, senza sapere dove andassero, senza sapere chi dovessero seguire o che cosa cercare […]. Sembravano prigionieri in un punto che si trovasse a metà fra i due mondi: qualcosa che non è né spirituale né fisico, ma si trova in uno stato intermedio – o così mi parve. Forse hanno un contatto col mondo fisico: qualcosa li lega al mondo di quaggiù poiché tutti sembravano curvi, intenti a guardare in giù, forse nel mondo fisico… […] Mi ricordavano le descrizioni che ho letto dei fantasmi; qualcosa come gli ectoplasmi (Ibid., pagg. 21-22)

Alcuni di questi spiriti sembravano sforzarsi inutilmente di comunicare con persone viventi: «Si vedeva che cercavano di stabilire un contatto, ma nessuno si accorgeva della loro presenza: la gente li ignorava… Cercavano di comunicare ma non potevano in alcun modo entrare in contatto. La gente sembrava non accorgersi affatto di loro» (Ibid., p. 23).

Ma le osservazioni del Fedone si fanno ancora più interessanti quando viene introdotto il tema del daimon. Al momento del trapasso, affermano alcuni soggetti studiati da Moody, degli esseri spirituali si manifestano a chi sta morendo, per aiutarlo nel suo viaggio. In qualche caso il morente è convinto che gli esseri incontrati siano i suoi “spiriti custodi”. Un uomo apprese dallo spirito: «Ti ho aiutato nel corso della tua esistenza, ma ora ti affiderò ad altri». Una donna ha detto di avere avvertito la presenza di due spiriti che si definirono “aiutanti spirituali”. Alcuni parlando di un “essere di luce”, di una luce che non abbaglia (La vita oltre la vita, cit, pagg. 54-61). «Per quanto questa luce (generalmente definita bianca o “chiara”) sia di un’indescrivibile luminosità, molti sottolineano che non offende in alcun modo la vista” (Ibid., p. 57). Il Bardo tödöl parla della “luce bianca divina non abbagliante”. «E sentirai nascere in te desiderio di quella luce bianca divina che non è abbagliante» (Il libro tibetano dei morti, cit, p. 90).

Ebbene, scrive Platone: «Come ciascuno muore, il suo genio personale [daimon], quello che l’ha avuto in consegna durante la vita, comincia col guidarlo in un determinato spazio, dove le anime in gruppo, dopo essere state ben esaminate, s’avviano all’Ade dietro a quella guida che ha ordine di far compiere il varco da qua a là» (Fedone, 107 d).

IL GIUDIZIO E IL PASSAGGIO

Questo brano, tra l’altro, introduce due altri elementi assai importanti delle esperienze di pre-morte: il giudizio e il passaggio.

Il giudizio assume di solito la forma di una sorta di esame della propria vita, e viene spesso condotto alla presenza di quell’essere di luce di cui si è già detto (e in cui alcuni cristiani ravvisano Cristo). Non si tratta esattamente di un ricordo così come siamo abituati a concepirlo, ma piuttosto di «una visione panoramica, tridimensionale, globale, vividamente colorata, degli eventi della propria esistenza». Scrive Moody: «L’apparire della luce e le sue domande non verbali costituiscono il preludio a un momento di stupefacente intensità nel quale l’essere presenta al morente una panoramica della sua vita. Spesso appare ovvio che l’essere può vedere l’intera vita dell’individuo morente e non ha bisogno di alcuna informazione. Vuole soltanto provocare in lui la riflessione» (La vita oltre la vita, cit, p. 61). E’ noto che tutte le religioni concordano nel concepire, in una forma o nell’altra, un qualche giudizio oltremondano, un momento in cui la vita del defunto viene soppesata e giudicata in tutte le sue opere, tanto buone quanto cattive. Questo giudizio assume spesso la forma simbolica di una “pesatura dell’anima” o psicostasia (vd. Di Nola, La nera signora, cit., pp. 317-320).

Alcuni soggetti, inoltre, riferiscono di aver scorto, durante la NDE, una sorta di confine, di limite, una volta oltrepassato il quale, il ritorno sarebbe stato impossibile. Le immagini con cui questo confine viene descritto sono varie: un fiume, una nebbia, una porta, una siepe, una linea e così via. Una donna racconta: «Mi parve di trovarmi su una nave o su un piccolo vascello in viaggio verso la riva opposta di una vasta distesa d’acqua. Sull’altra sponda vedevo tutti i miei cari defunti: mia madre, mio padre, mia sorella e altri ancora. Li vedevo, vedevo i loro volti com’erano quando erano sulla terra. Sembrava mi facessero cenno di raggiungerli e io dicevo: “No, no, non sono ancora pronta a raggiungervi. Non voglio morire. Non sono pronta ad andarmene”» (La vita oltre la vita, cit., p. 69). Tutti questi simbolismi potrebbero essere facilmente descritti come immagini archetipiche, dal momento che si ritrovano tutte nei vari patrimoni culturali dell’umanità. Tra i Goldi è un gran fiume a sbarrare il cammino verso il regno dei morti, e solo gli sciamani più potenti riescono ad oltrepassarlo e a raggiungere l’altra riva, oltre la quale s’incominciano a scorgere segni di attività umana (cfr. Eliade, Lo Sciamanismo, cit, p. 235). Un fiume è ciò che vede anche lo sciamano caribe nel corso della sua iniziazione, durante il viaggio celeste. Guidato da un Indiano che, in realtà, è uno spirito benigno (Tukajana), egli giunge presso un grande fiume, dove uno Spirito delle Acque (Amana), lo induce ad immergersi. «L’allievo e la sua guida raggiungono l’altra sponda del fiume e il bivio “della Vita e della Morte”. Il futuro sciamano può scegliere di andare nel “Paese-senza-sera” o nel “Paese-senza-alba”. Lo spirito che lo accompagna gli rivela allora il destino delle anime dopo la morte. Il candidato vien bruscamente ricondotto in terra da una viva sensazione di dolore. E’ che il maestro ha applicato sulla sua pelle il maraqué, una specie di stuoia negli interstizi della quale sono state messe delle grosse formiche velenose» (Ibid., p. 153).

E’ un ponte invece, il Ponte Cinvat, a stabilire il confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti nella mitologia funeraria iranica. Il Ponte Cinvat è “come un trave dalle molte facce” (Dataistân-i-Denik, XXI, 3 sgg.), si divide cioè in più passaggi: per i giusti è largo come nove lance, per gli empi è stretto come “la lama di un rasoio” (Dînkart, IX, 30, 3). Sotto di esso si spalanca l’Inferno. Commenta Eliade: «Qui ci troviamo di fronte allo schema cosmologico “classico” delle tre regioni cosmiche collegate da un asse centrale (Pilastro, Albero, Ponte, ecc.). Gli sciamani circolano liberamente nelle tre zone; i defunti debbono invece attraversare un ponte nel loro viaggio verso l’aldilà. […] Il ponte non è soltanto la via dei morti, esso è anche il cammino degli estatici» (Lo Sciamanismo, cit., pp. 423, 424). Oltre a distinguere le due zone cosmiche, dunque, il Ponte Cinvat le unisce. Questa bella immagine sembra insomma dirci che, sebbene distinti e differenti, i due mondi – l’aldiquà e l’aldilà – sono però in collegamento. Ed alcuni individui hanno, come i morti, accesso all’oltretomba ma, a differenza dei morti, possono anche farne ritorno.

GLI SCIAMANI: VIAGGI DELL’ANIMA ED ESPERIENZE DI CONFINE

I mezzi utilizzati per penetrare nelle regioni oltremondane sono vari, ma accomunati dall’alterazione del normale stato di coscienza. Per lo più, gli sciamani ricercano questo diverso livello di consapevolezza ricorrendo a due metodi alternativi ma a volte complementari (seguiamo la classificazione di Rouget): quello della privazione sensoriale (e si avrà l’estasi) o, al contrario, quello dell’iperstimoalzione (e si avrà la trance). Altre volte, le esperienze extracorporee non sono volute, e si realizzano in occasione di malattie o di condizioni assai prossime alla morte. Riferisce Eliade: «Un altro profeta dello stesso movimento [la Ghost Dance Religion, N.d.A.], John Slocum di Pujet Sound, “morì” e vide la sua anima abbandonare il corpo. “Ho visto una luce abbagliante, una grande luce… ho guardato ed ho visto che il mio corpo non aveva più l’anima; era morto… La mia anima abbandonò il corpo e s’innalzò verso il luogo del giudizio di Dio… Ho visto una grande luce nella mia anima, luce che veniva da quel buon paese” [J. Mooney, The Ghost Dance Religion and the Sioux outbreak of 1890 (14th Annual Report of the Bureau of American Ethnology, 1892-93, II, Washington, 1896, pp. 641-1136), pp. 752]» (Lo sciamanismo, cit., p. 166). E ancora: «Talvolta il viaggio dello sciamano nell’oltretomba ha luogo durante una transe catalettica avente tutti i caratteri di una morte apparente. Uno sciamano dell’Alaska ebbe a dichiarare di esser stato morto e di aver seguita per due giorni la via dei trapassati: era una via ben battuta da tutti coloro che l’avevano preceduto. Camminando, udiva continuamente pianti e lamenti e venne a sapere che erano i vivi che stavano piangendo i loro morti. Giunse in un grande villaggio, simile in tutto a quelli dei viventi…» (Ibid., pp. 316-17).

Lo Yoga conosce addirittura delle precise tecniche di respirazione finalizzate a conseguire uno stato assai simile alla morte: «La missione della Dr. Thérèse Brosse in India (vedi Ch. Laubry e Thérèse Brosse, Documents recueillis aux Indes sur les “yogins” par l’enregistrement simultané du pouls, de la respiration et de l’électrocardiogramme, “Presse Médicale”, n. 83, del 14 ottobre 1936) ha dimostrato che la riduzione della respirazione e della contrazione cardiaca ad un grado che, ordinariamente, si verifica solo nell’imminenza di una morte inevitabile, è un fenomeno fisiologico autentico, che gli yogin possono realizzare con la forza di volontà e non per effetto di autosuggestione» (Eliade, Lo Yoga – immortalità e libertà, Milano1999, p. 65, n. 4).

La musica, e in particolare il suono del tamburo, ha senz’altro un ruolo fondamentale nel prodursi della trance sciamanica. Scrive a questo proposito Nevill Drury: «Recenti ricerche tra gli indiani salish, compiute da Wolfgang G. Jilek, hanno dimostrato che il ritmo sonoro del tamburo sciamanico produce una particolare frequenza nelle onde theta dell’elettroencefalogramma (47 cicli al secondo), che è la lunghezza d’onda cerebrale associata con i sogni, lo stato ipnotico e la trance. Questo non sorprende, perché l’attività sciamanica è un tipo di “sogno lucido” mitico. In questa particolare categoria del sogno la persona è consapevole di stare sognando e, analogamente, durante il rituale lo sciamano è conscio del proprio stato alterato di coscienza ed è in grado di agire in esso per i propri particolari scopi. Gli sciamani riferiscono senza eccezione i loro incontri con l’altro mondo non come allucinazioni o immaginazioni gratuite, am come esperienze valide e reali. Ciò che accade durante il viaggio spirituale in quella dimensione è reale» (pp. 45-46). E ancora: «Vi sono pochissimi studi scientifici finora su quanto avviene a uno sciamano durante il viaggio. Occorrerebbero ricerche molto più approfondite in questo campo. Comunque, con una ricerca compiuta con l’attrezzatura elettroencefalografica per studiare le onde cerebrali, è stato scoperto che in soli dieci minuti di “viaggio” lo sciamano raggiunge uno stato di coscienza, che può essere misurato scientificamente, che fino allora era stato raggiunto solo una volta dai maestri dello Zen giapponese dopo una profonda meditazione durata sei ore. Ciò dimostra che l’effetto del tamburo e dei metodi sciamanici è veramente notevole» (Nevil Drury, intervista con Michael Harner, novembre 1984, pubblicata con il titolo “The Shaman: Healer and Visionary”, in “Nature and Health”, vol. 9, n. 2, p. 86.). Abbiamo dunque una continuità tra sogni, ipnosi e trance. La lunghezza d’onda cerebrale è la medesima in tutti questi stati di coscienza, e gli sciamani la ricercano consapevolmente servendosi del ritmo cadenzato dei tamburi. Perché? Perchè, come abbiamo già visto, è proprio durante il sogno e la trance che l’anima abbandona il corpo per dirigersi in quei regni spirituali in cui i morti si sono trasferiti in maniera definitiva e in cui anche la anime dei viventi, a volte, si smarriscono. «Fra i menangkabau dell’Indonesia si ritiene che la forza vitale, o sumangat, abbandoni il corpo nel sogno o durante una malattia e che il compito dello sciamano, o dukun, sia quello di controbattere l’influenza ostile degli spiriti cattivi mentre l’anima è lontana dal corpo» (Ibid., p.10).

«E’ noto che presso numerosi popoli l’anima è concepita come un uccello. Il “volo magico” assume il valore di una “uscita dal corpo”, vale a dire traduce plasticamente l’estasi, la liberazione dell’anima. Ma, mentre la maggior parte degli uomini si trasformano in uccelli solamente al momento della morte, quando abbandonano il corpo e se ne volano in cielo – gli sciamani, gli esorcisti, gli “estatici” di ogni tipo, realizzano quaggiù, tutte le volte che lo desiderano, la “uscita dal corpo”» (Eliade, Lo Yoga, cit, p. 307). Gli sciamani sono dunque specialisti della trance, e se ne servono per esplorare mondi normalmente posti al di là della comune percezione sensoriale. In questi mondi si recano non col corpo fisico, ma con il corpo spirituale, con l’anima, con la sombra, o comunque la si voglia chiamare. Per loro quella di separare l’anima dal corpo è un’arte. Nello Yogaçâstra di Hemacandra (VI, 1) esiste perfino un termine che designa questa arte: vedhaviddhi. Chi riesce a separare l’anima dal corpo può anche penetrare, se lo vuole, in un corpo estraneo (parapurakâyapraveça). E’ questo un tema ricorrente nel folklore religioso e laico indiano, noto anche nel tantrismo. «Marpa attuò la “translazione di vita” nel corpo di un piccione; il piccione si rianimò, mentre il corpo del Lama era “simile a un cadavere”» (Eliade, Lo Yoga, cit, p. 364; cfr. anche Maurice Bloomfield, On the art of entering another’s body, a hindu fiction motif, “Proceedings of the American Philosophical Society”, vol. 56, 1914, pagg. 1-43). «Al contrario della persona qualunque, lo sciamano estrae la propria sombra dal corpo effettuando il viaggio pericoloso tra i labirinti e le contrade sconosciute dell'”altro mondo”, in quanto il suo doppio animico è dotato di un potere sufficiente a farsi valere e imporsi» (Mario Polia, Le “sindromi culturali”…, cit, 308).

Ma come vivono, gli sciamani, le loro esperienze di uscita dal corpo? Fondamentalmente nello stesso modo in cui le vivono i testimoni moderni. Scrive ancora Drury: «Possiamo farci un’idea dei processi percettivi dello sciamano nella sua proiezione spirituale, leggendo che egli scivola lungo un tubo così stretto che non gli permette di cadere. Quel budello è tenuto aperto da tutte le anime dei suoi protettori personali finché egli potrà ritornare sulla terra [W. A. LESSA and E. Z. VOGT (a cura di), Reader in Comparative Religion, 1972, p. 389]» (p. 11). Come non pensare al “tunnel di luce” e alle “entità spirituali” di cui parlano anche i soggetti che vivono esperienze di NDE?

Per renderci conto della dimestichezza delle culture arcaiche con questi fenomeni, sarà utile considerare quanto scrive S. M. Shirokogoroff: «In stato di grande concentrazione gli sciamani (tungusi), come altre persone, possono entrare in comunicazione con altri sciamani e con individui comuni. Presso tutti i gruppi tungusi questo si fa del tutto intenzionalmente per necessità di carattere pratico, specialmente in casi urgenti… […] V. K. Arseniev mi riferì un caso da lui personalmente osservato: uno sciamano invitò due altri sciamani da luoghi lontani in una particolare circostanza (malatia improvvisa di un giovane), ed essi arrivarono entro un lasso di tempo tale da escludere materialmente la possibilità che fossero stati avvertiti da un messaggero. I Tungusi parlano di casi del genere come di una cosa ordinaria, e impiegano questo mezzo quando non hanno tempo di inviare un messaggero. Questa serie di osservazioni è interpretata (dai Tungusi) nel senso che vi è un elemento che si esteriorizza in forma di sostanza immateriale – l’anima –, e che comunica con le anime delle altre persone. Nello stesso gruppo di prove dell’esistenza dell’anima i Tungusi comprendono i casi di “visione a distanza” (cioè di “chiaroveggenza”), il cui meccanismo è forse lo stesso di quello della telepatia… […] In tutti questi casi gli sciamani dicono che essi “spediscono l’anima” con una comunicazione» (The Psychomental Complex of the Tungus, London 1935, pp. 117 sgg., 118n, cit. in E. de Martino, Il mondo magico, Torino 2000, pp. 10-11, corsivo nostro). I Selk’nam descrivono la potenza psichica di visione dello stregone con il termine yauategn, e rappresentano questa forza come «un occhio che uscendo dal corpo dello stregone si dirige in linea retta verso l’oggetto che ha di mira, ma sempre restando in connessione con lo stregone. Esso si distende come una sorta di “filo di gomma” (questo paragone fu scelto dagli indiani stessi), portando il vero e proprio organo visivo dalla parte del capo libero, come il podoftalmo dei gamberi, per dopo ritirarsi, come fanno le antenne delle lumache» (M. Gusinde, Die Feuerland-Indiäner, I, Mödling b. Wien 1937, p. 751, cit. in E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 66). Come non pensare alla famosa “corda d’argento” che congiungerebbe corpo fisico e corpo astrale durante le OBE? I soggetti moderni, come abbiamo già visto, l’hanno descritta in vario modo: come un filo, come un nastro, come una siringa, una fettuccia, un tubo per innaffiare, una catena e perfino un cordone ombelicale… «La coscienza di sé – scrive Greenhouse (p. 52) – sembra muoversi attraverso la corda fra il corpo fisico e quello astrale, alternandosi nell’uno e nell’altro, qualche volta fissandosi in entrambi per brevi istanti». Tra l’altro «l’yauategn non consiste … nella capacità di riprodurre fotograficamente un qualche oggetto, ma anche di prendere cose materiali e le anime personali altrui, esercitando su di loro una influenza reale». Un qualcosa di più articolato della semplice chiaroveggenza, dunque. Soffermiamoci su un altro interessante resoconto etnologico che testimonia dell’abilità di uno stregone zulu nell’«aprire le porte della distanza» (per usare le parole dello stregone stesso) allo scopo di ottenere informazioni necessarie a David Leslie, un esploratore sudafricano preoccupato perché i suoi cacciatori kafiri non erano arrivati come previsto.

Lo stregone accese otto piccoli fuochi, quanti erano i miei cacciatori, in ciascuno di tali fuochi gettò delle radici, che emettevano un odore nauseante e fumo denso, e vi gettò anche di poi una pietruzza, gridando contemporaneamente il nome al quale la pietra era dedicata. Poi trangugiò una “medicina”, e cadde in uno stato psichico apparentemente simile alla trance. Ciò durò per circa dieci minuti, e durante tutto questo tempo i suoi arti si agitavano convulsamente. Poi sembrò svegliarsi, si diresse verso uno dei fuochi, rimosse le ceneri, fissò la pietruzza con attenzione, descrisse l’uomo fedelmente, e disse: – Quest’uomo è morto di febbre e il vostro fucile è andato perduto -. Quindi portandosi davanti al secondo fuoco: – Quest’uomo (correttamente descritto) ha ucciso quattro elefanti -, e passò a descriverne le zanne. Portandosi poi davanti al terzo fuoco: – Quest’uomo (descrivendolo ancora) è stato ucciso da un elefante, ma il vostro fucile tornerà a casa -, e così per il resto, con descrizioni minute e corrette degli uomini, e con l’indicazione del loro successo o del loro insuccesso. Mi fu detto dove erano i superstiti e che cosa facevano in quel momento. Mi fu anche detto che fra tre mesi avrebbero fatto ritorno, ma che non sarebbero passati per quella via, poiché non speravano più di trovarmi dopo il tempo convenuto. Queste informazioni, di cui presi allora diligentemente nota, con mio grande stupore si palesarono più tardi esatte in ogni particolare. Che quest’uomo potesse aver avuto le informazioni dai cacciatori per via normale era poco probabile (was scarcely within the bounds of possibility): essi erano sparpagliati in una regione lontana duecento miglia [D. Leslie, Among the Zulu and Amatongos, Edinburgh 18752, citato da A. Lang, The Making of Religion, 19092 pp. 68 sgg., in E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 15].

Permetteteci, in conclusione, di citare altre due testimonianze che presentano notevoli analogie con classiche esperienze di OBE. La prima è riferita da R. G. Trilles, etnologo e missionario tra i Pigmei dell’Africa equatoriale [R. G. Trilles, Les Pygmées de la forêt équatoriale, Paris 1932]. Così Greenhouse riassume la testimonianza di padre Trilles:

Ngema Nzago, capo della tribù africana degli Yabikou, si guadagnò un grande prestigio fra la sua gente poiché era uno stregone. Egli aveva il potere di guarire i malati, di far apparire monete per i poveri e di rendere meno dura la vita agli uomini della sua tribù in molti altri modi per mezzo dei suoi poteri psichici. Egli si stava preparando a raggiungere gli stregoni delle altre tribù nel paese di M’fang dove essi si incontravano ogni tanto per discutere i segreti della loro arte. Il luogo del ritrovo era la piana di Yemvi, distante quattro giorni di viaggio. “Sarò là domani” disse Ngema al missionario padre Trilles. Il padre Trilles lo guardò sbalordito. Come poteva Ngema coprire una distanza di quattro giorni di cammino in meno di un giorno? Non c’era altro mezzo di locomozione che le gambe. Ngema sorrise. “Oh, io andrò là ma in egual tempo sarò anche qui. Vedo che non mi credi. Bene, vieni stasera nella mia capanna. Partirò di là. Ancora scettico, padre Trilles si presentò quella sera alla porta della capanna di Ngema e trovò il capo che si stava strofinando il corpo con un liquido rossastro e borbottava una cantilena. Non che non si fidasse del tutto del capo, avendo visto molti esempi di chiaroveggenza di Ngema, ma la sua mentalità occidentale esigeva la prova evidente che Ngema avrebbe realmente fatto il viaggio col suo secondo corpo. “Per la strada di Yemvi”, disse il missionario, “ai piedi della collna, attraverserai il villaggio di Nahong, dove vive il mio catechista, Esaba. Passando davanti alla sua porta, digli per favore che dovrebbe portarmi subito le cartucce del fucile che gli ho prestato”. “Sarà fatto. Esaba avrà il tuo messaggio questa sera e si metterà in viaggio domani”. Ngema si sdraiò sulla stuoia e rimase perfettamente immobile. Dopo qualche minuto di silenzio, padre Trilles trasalì nel vedere un serpente cadere dal tetto e arrotolarsi intorno al corpo rigido del capo steso sulla stuoia. Il missionario, evitando il serpente, infilò uno spillo nel fianco di Ngema, ma non ci fu alcuna reazione. Una leggera schiuma apparve sulle labbra del dormiente, ma il suo corpo non si mosse. Padre Trilles si ritirò in un angolo della stanza e si sedette preparandosi a passare la notte. Il serpente scomparve misteriosamente. Per tutta la notte Ngema giacque in una trance catalettica mentre padre Trilles lo osservava. La mattina dopo si agitò, quindi si svegliò e sorrise al missionario. “Ho dato il vostro messaggio, e sono stato al raduno degli stregoni”. Tre giorni dopo Esaba, il catechista, arrivò alla missione di Yabikou, chiese di padre Trilles, poi porse alcune cartucce al missionario sbigottito. Esaba aveva visto veramente il capo Ngema che era rimasto per tutta la notte disteso sulla stuoia nella capanna? “No, padre, ma durante la notte l’ho sentito chiamarmi fuori della capanna. Mi ha detto che volevate queste subito”.

Il serpente potrebbe essere interpretato come forma esteriorizzata dell’anima, un tema frequente nelle credenze tradizionali, e che abbiamo già toccato nel paragrafo dedicato all’anima (per una trattazione approfondita vd. van der Leeuw, op. cit., II, § 42), ma interessante è anche il procedimento utilizzato dallo stregone per compiere il suo viaggio fuori dal corpo. Anche le streghe dell’Occidente medievale, come si sa, erano solite cospargersi il corpo con unguenti allucinogeni prima di recarsi al Sabba, tanto che, chi negava la realtà fisica del viaggio stregonico (Pomponazzi, Della Porta, Molitor, Wier…), spiegava proprio con il ricorso a queste sostanze le visioni che le streghe raccontavano di avere nel corso dei loro viaggi. Scriveva ad esempio Girolamo Visconti (1460 circa): «E così, affrontate queste cose, dico brevemente che tali persone [cioè le donne “streghe”] non si recano realmente al “gioco” [al Sabba], come provano le ragioni portate a dimostrare il contrario. Infatti, quando dormono, non è possibile che i loro corpi siano contemporaneamente nel letto e al “gioco”. Per tanto, non vi si recano realmente» (Lamiarum sive striarum opusculum, cit. in S. Abbiate, A. Agnoletto, M. R. Lazzati, La stregoneria, Milano 1991, p. 13). Ma ammettendo, come lo stregone di padre Trilles, l’esistenza di un secondo corpo, non fisico, la possibilità della bilocazione diventa più concreta. Scrivono Kraemer e Sprenger nel tristemente noto Malleus Maleficarum : «Una donna della città di Briasch, che abbiamo interrogato per sapere se le streghe potessero essere trasferite in modo fantastico e illusiorio o piuttosto con il corpo, rispose che questo poteva avvenire in entrambi i modi. Nel caso in cui non volessero essere trasferite con il corpo e tuttavia volessero sapere che cosa succedeva nell’assemblea delle loro colleghe, si servivano del seguente metodo: nel nome di tutti i diavoli si sdraiavano per dormire sul lato sinistro; allora una sorta di vapore glauco usciva loro dalla bocca e così potevano vedere molto lucidamente quanto accadeva» (Ibid., p. 147, corsivo nostro). Il riferimento alla stregoneria non sembri troppo azzardato. Già E. Stiglmayr, nel suo articolo Hexen (RGG III, 307-308), dichiara esplicitamente che «sotto il profilo storico-religioso si può affermare con sufficiente sicurezza che l’idea di stregoneria si sia sviluppata, in prima linea, sullo Sciamanesimo» (in A. M. Di Nola, Il diavolo, Roma 1994, p. 270, cfr. le pagg. sgg. per una trattazione più completa dell’argomento).

Ecco un altro interessante racconto riferito da Greenhouse (p. 32):

Tuono Bianco era un capo della tribù delle Code macchiate. Una sera, mentre la sua squaw stava preparando la minestra, egli si era sdraiato per un sonnellino quando si svegliò e vide nella camera due membri della tribù vestiti con abiti bianchi, che gli fecero segno di seguirlo. Gridò allora a sua moglie che usciva per un momento, ma lei non gli prestò attenzione. Stupito per questo, si volse e vide che il suo corpo fisico era ancora addormentato sulla stuoia. Allora doveva essere morto! Gli uomini con le vesti bianche lo rassicurarono: stavano solo portandolo a fare un viaggio ma lo avrebbero fatto tornare, e la sua vita sarebbe durata ancora molti anni. Quindi Tuono Bianco ebbe l’impressione che lui e le sue guide galleggiassero per l’aria, e poi si trovò sopra “un grande fiume splendente” che si innalzava sempre più nel cielo. Le sue guide gli dissero che il fiume si stendeva attraverso il paese del Grande Spirito, dove tutti i buoni Indiani andavano dopo la morte. Tuono Bianco scorse delle tende familiari lungo le rive di questo fiume e fu piacevolmente sorpreso nel vedere molti dei suoi vecchi amici, ormai morti, che ne uscirono per salutarlo. Ma quando raggiunse la tenda più grande, dove viveva un Grande Spirito, gli fu detto che doveva tornare nel suo corpo e rendere noto il messaggio che tutti gli uomini sono fratelli e devono amarsi tra loro. Tornato nella sua tenda, Tuono Bianco trovò il suo corpo addormentato strettamente legato con corde, mentre sua moglie, seduta sulla stuoia, gridava disperatamente e suo figlio stava chiamandolo per nome singhiozzando. Diede un’occhiata indifferente al suo corpo fisico e si voltò per tornare alla terra dei morti. Ma le sue guide gli sbarrarono la strada e gli ingiunsero solennemente di rientrare nel corpo. Immediatamente egli perse la coscienza, e subito dopo si svegliò nel suo corpo dibattendosi, preso dal panico per liberarsi delle corde. Con un grido di gioia, sua moglie tagliò le funi spiegando che lo avevano creduto morto e avevano preparato il suo corpo per la sepoltura. La storia di Tuono Bianco apparve nell’opera del maggiore C. Newell, Storie Indiane. Tuono Bianco disse al maggiore Newell che era stato fuori dal suo corpo per “tre sonni”.

Il racconto di Tuono Bianco è molto interessante, perché presenta diversi punti di contatto con le moderne esperienze di NDE, alle quali riteniamo di poterlo senz’altro assimilare.

1) La presenza di guide spirituali (che a volte possono essere dei parenti defunti, mentre in questo caso sono membri della tribù).

2) La visione del proprio corpo.

3) La consapevolezza di essere morto.

4) La sensazione di volare (“galleggiare per l’aria”).

5) Il confine (in questo caso descritto come un “grande fiume splendente”, immagine comune anche nelle testimonianze moderne; un soggetto intervistato da Moody ad esempio racconta: «Ecco, un luogo… Veramente bello, non lo si può descrivere. Ma è un luogo reale. Non lo si può immaginare. Quando si raggiunge l’altra sponda c’è un fiume. Come si legge nella Sacra Scrittura. L’acqua era limpida e liscia, come il vetro… Sì, si attraversa un fiume. Io l’ho fatto…» [Nuove ipotesi…, cit, p. 20]).

6) La visione di un aldilà abitato dalle anime dei defunti (Tuono Bianco parla di “tende” poste al di là del grande fiume, altri parlano di una “città di luce”; una donna intervistata da Moody racconta: «Poco dopo ero là con i miei nonni e mio padre e mio fratello, che erano morti… Attorno a me vi era una luce incredibilmente bella, vivida. E il luogo era bello. Vi erano colori – colori vivi – non come quelli che si trovano sulla terra, indescrivibili. E vi era gente, gente felice… […] Lontano… vidi una città. Vi erano edifici – edifici distinti. Lucevano, vividi. Dove la gente era felice. […] Credo la si potrebbe chiamare una città di luce… Era meraviglioso. […] Ma se vi fossi entrara, credo non ne sarei tornata mai… Mi venne detto che se fossi andata là non sarei potuta tornare indietro…» [Ibid., p. 19]).

7) Il compito da svolgere (molti soggetti che hanno vissuto esperienze di NDE affermano che nonostante il luogo dove si trovavano fosse così splendido, tuttavia dovettero fare ritorno nel proprio corpo perché avevano ancora delle cose da fare su questa terra; a Tuono Bianco viene affidato il compito di diffondere un messaggio di fratellanza).

8) La visione dei parenti in lacrime (cfr. sopra, le scene descritte nel Bardo tödöl…).

Parrebbe dunque che culture primitive sparse in tutto il mondo possiedano conoscenze assai approfondite sulla realtà del corpo astrale e sulle possibilità di servirsene nella vita di tutti i giorni. Gli Zulu testè citati, ad esempio, parlano del corpo fisico come inyama e del doppio non fisico come isithunzi, che dopo la morte sopravvive come portatore dello spirito, o umoya.

Esiste inoltre un fenomeno molto curioso, ma evidentemente comune, in cui il doppio parrebbe implicato in una particolare forma di bilocazione. Si tratta dei c.d. “fenomeni di arrivo”, pure conosciuti come “premonizioni di venuta”. Così li descrive Greenhouse (p. 200):

Qualcuno aspetta un ospite che appare col suo doppio prima dell’ora fissata e poi scompare. L’ospite in carne e ossa si presenta un momento dopo, senza sapere di avere annunciato la sua venuta. Il fantasma di arrivo è chiamato vardogr in Norvegia, un paese dove questo tipo di esperienza extracorporea sembra frequente. Secondo Thorstein Wereide, che scrisse intorno ai Doppi umani norvegesi nella rivista Tomorrow (inverno 1955), il vardogr è udito oltre che visto, vi sono passi sulle scale, la porta esterna viene aperta, si sente il rumore di chi si toglie le soprascarpe. Quando il padrone di casa indaga, trova l’anticamera vuota ma sa che il suo ospite arriverà presto. Una signora era così abituata a sentire e a vedere il vardogr dei suoi ospiti che il suo arrivo era per lei il segnale di preparare il pranzo. In L’enigma dei viaggi extracorporei Susy Smith racconta la storia di un uomo d’affari di New York che si recò in Norvegia per la prima volta e fu accolto dappertutto come un amico di famiglia, anche da persone che non aveva mai visto prima. Il segretario dell’albergo disse che era un piacere rivederlo come cliente, mentre le prime parole di un commerciante norvegese fuorono: “Che piacere rivedervi, signor Gorique”. Gorique aveva pensato nei mesi precedenti al suo viaggio e aveva evidentemente proiettato il suo doppio senza saperlo.

Nel libro The Phenomena of Astral Projection (London Rider and Co., 1951) Sylvan Muldoon e Hereward Carrington citano le parole di un missionario a Tahiti dal Metaphysical Magazine dell’ottobre 1896: «Si credeva che al momento della morte l’anima uscisse dal corpo, da cui era portata via, per unirsi gradualmente e lentamente al dio da cui era stata emanata… I Tahitiani sono giunti alla conclusione che una sostanza, prendendo forma umana, esca dalla testa, perché fra i pochi privilegiati che hanno il dono sacro della chiaroveggenza, alcuni affermano che, poco dopo la cessazione del respiro in un corpo umano, un vapore si innalza su dalla testa, librandosi per breve spazio sopra di essa, ma rimanendovi attaccato per una corda vaporosa. La sostanza, si dice, aumenta lentamente di volume e assume la forma del corpo inerte. Quando questo è divenuto del tutto freddo, la corda di unione si dissolve e l’anima ormai libera vola via come se fosse sostenuta da portatori invisibili».

C’è bisogno di aggiungere altro? Sembra quasi la controparte folklorica di quanto raccontato a Cyril Permutt da Elsie M. Ball, di Manchester, che fu affianco al marito la sera in cui questi morì. «Alle 7,20 del pomeriggio, dopo un ultimo ansito, vidi quella che sembrava una corda d’argento opaca uscire dalla sua fronte. Era ritorta e, prima di lasciare la testa di mio marito, diede un piccolo strappo, come per liberarsi del tutto, e poi si elevò fino a scomparire» (in C. Permutt, Obiettivo sull’aldilà, Roma 1992, p. 68).

Vi è stato anche chi, come il dott. Hippolyte Baraduc, ha tentato di fotografare l’anima servendosi di radiografie luminescenti. Eccone alcuni esempi celebri, in cui è possibile vedere una sorta di nube vaporosa fuoriuscire dal corpo della moglie di Baraduc fotografata al momento del trapasso. Cosa ritraggono queste fotografie? E’ difficile dirlo, ma una cosa è certa: la somiglianza con le descrizioni tradizionali e moderne dell’anima è palese. Si può anche notare una struttura nastriforme e luminescente che scaturisce dalla testa della donna e, progressivamente, si stacca dal suo corpo sollevandosi verso l’alto:

OBE e NDE presso le culture tradizionali 1 OBE e NDE presso le culture tradizionali 2 OBE e NDE presso le culture tradizionali 3 OBE e NDE presso le culture tradizionali 4

Paralisi nel sonno (da Wikipedia)

La paralisi nel sonno, detta anche paralisi ipnagogica, è un disturbo del sonno in cui nel momento prima di addormentarsi o, più comunemente, al risveglio ci si trova senza la possibilità di potersi muovere. Questo disturbo dura molto poco (al massimo 2 minuti dal risveglio o pochi secondi prima di addormentarsi), talvolta di più, ma mai per un tempo oggettivamente lungo. Consiste nel fatto che tutti i muscoli del corpo sono paralizzati, e la persona in cui si manifesta è del tutto cosciente e riesce a svolgere pochissimi movimenti del suo corpo, in certi casi solo il movimento degli occhi, della lingua o alcuni lievissimi movimenti degli arti; comunque durante le paralisi la respirazione è sempre assicurata.

Questo stato di paralisi è dovuto alla persistenza dello stato di atonia che i muscoli presentano durante il sonno ed è causato da una discordanza tra la mente e il corpo: il cervello è attivo e cosciente, e il soggetto riesce spesso a vedere e sentire chiaramente ciò che lo circonda, nonostante ciò il corpo continua a rimanere in stato di riposo. Ciò solitamente incute nell’individuo affetto dal disturbo terrore e angoscia. Le cause più comuni sono: mancanza di riposo, stress, ritmi di sonno irregolari. Spesso la “vittima” di tale paralisi tende a gridare, talvolta chiedendo aiuto, ma quando cercherà di farlo non griderà, bensì emanerà solo un lieve sussurro ed avrà la sensazione sgradevole di sentire la propria voce soffocata da qualcosa di anomalo.

La paralisi notturna “è una delle scoperte sul sonno più sorprendenti: durante ogni fase REM (per 4 o 5 periodi ogni notte, dunque, e per un totale di circa 90 minuti) il corpo dell’uomo (ad eccezione degli occhi) è completamente paralizzato, non è possibile muoversi e si perde il controllo dei muscoli. Probabilmente, questa paralisi ha la funzione di difendere l’individuo dai movimenti inconsulti provocati dal sogno” (Piero Angela, 1994) [1]. Perciò il periodo di paralisi durante il sonno sembra normale. Ciò che è insolito è l’associazione di questo ad uno stato cosciente della mente.

Le paralisi nel sonno vanno distinte dalle illusioni ipnagogiche con le quali però possono accompagnarsi causando sensazioni particolarmente vivide e talvolta terrificanti.

Illusione ipnagogica (da Wikipedia)

Le illusioni o allucinazioni ipnagogiche sono esperienze intense e vivide che si verificano all’inizio di un periodo di sonno e avvengono spesso in aggiunta delle paralisi ipnagogiche. Questa fase dura da qualche secondo a diversi minuti in cui alcuni o tutti i sensi, ma in particolar modo vista, udito e tatto, possono risultare coinvolti e frequentemente è molto difficoltoso per il soggetto distinguere l’allucinazione dalla realtà. Alcune volte le allucinazioni ipnagogiche possono costituire un’esperienza piuttosto spaventosa, specialmente perché l’illusione consiste in soggetti terrificanti; nel momento in cui si vive l’esperienza l’approccio migliore consiste nel riflettere che tutto ciò che si sta manifestando non è reale e calmare il proprio panico di fronte a queste illusioni (visive, tattili e uditive) in quanto si alimentano dalle stesse paure del soggetto dormiente, poi scompaiono lasciando il posto ad un sonno ristoratore.

Sonno ipnopompico (da Wikipedia)

Lo stato ipnopompico è lo stadio che porta dal sonno alla veglia. In tale fase, come pure in quella che viceversa porta dalla veglia al sonno (detta “stato ipnagogico”), il cervello può avere delle sensazioni, in particolare visive e uditive, che, pur non essendo reali, vengono percepite come tali anche in modo assai vivido. A volte si può essere lucidi mentalmente nel momento in cui si palesa una allucinazione visiva, potendo addirittura in taluni casi decidere in quell’istante cosa si vorrebbe che si raffigurasse o meno. Tali immagini vengono facilmente dimenticate, ma talvolta possono essere addirittura scambiate per esperienze realmente vissute.

Un esempio di queste fantasie è quella di essere chiamato per nome. Altre possono avere contenuti più insoliti e anche traumatici, come la presenza di uno o più intrusi in camera da letto o addirittura l’esperienza di un rapimento da parte di alieni, alla quale potrebbe contribuire anche l’impossibilità di muoversi causata dal fenomeno della paralisi nel sonno.